IGNAZIO PERLONGO     (riportato per errore Francesco)

A fianco un immagine dell'Imperatore Carlo VI a cui
Perlongo suggerì di obbligare i "borgesi" di destinare i fondi alla coltivazione del lino.
Una cartina della Sicilia del diciottesimo secolo.

Francesco Perlongo nel Settecento  riuscì nell’impresa

Il giudice che risanò le finanze della sicilia

(articolo di Amelia Crisantino)

 

Francesco Perlongo è uno di quei siciliani di cui si è del tutto persa la memoria, vissuto in un passato lontano e nemmeno una strada di periferia a tramandarne il nome1. Eppure è lui che, per la prima volta, progetta e in tutti i modi si adopera per ritagliare un ruolo da protagonista alla Sicilia, in quello che oggi si chiama l’Euromediterraneo.

 

 

Il presidente del Tribunale del Real patrimonio che nel Settecento portò in attivo il bilancio della Sicilia

 

Perlongo è un siciliano fuori dagli stereotipi. Non esita a schierarsi a fianco della monarchia nel suo eterno braccio di ferro contro i baroni. Difende le prerogative del Regno contro la pretesa papale di considerare l’isola un feudo della chiesa. E’ un magistrato, ha il senso dello Stato. Non ha clientele da tenere in piedi è un burocrate come l’isola non ne ha mai prodotti e sa guardare lontano. Il suo chiodo fisso è il miglioramento economico della Sicilia, profittando delle opportunità offerte dalla storia.

 

Era nato nel 1666 a NASO, in provincia di MESSINA.

 

Nel 1718, quando comincia la breve dominazione austriaca, Perlongo è un avvocato del Tribunale del Real Patrimonio. Nel settembre del 1720 dalla corte di Vienna arriva  la richiesta di informazioni sulla struttura economica sull’isola, e Perlongo scrive una Relazione sul commercio in Sicilia che lo fa diventare l’interlocutore principale del governo austriaco. Viene nominato Presidente del Tribunale del Real Patrimonio e i bilanci cominciano a presentare un saldo in attivo, a riprova che è possibile bonificare la finanza pubblica. Allo stesso tempo non smette di pensare a come migliorare l’attività agricola e manifatturiera in Sicilia, e il Tribunale  diventa centro propulsivo per numerosi progetti redatti da un ristretto gruppo di funzionari decisi a portare avanti la politica del governo.

 

Il magistrato capì che l’isola doveva commerciare con l’Africa

 

Scrive Francesca Gallo nel suo L’alba dei Gattopardi che per la prima volta dopo secoli la Sicilia si trovava coinvolta nella costituzione di una nuova area commerciale con circuiti alternativi a quelli usuali, i cui poli erano Ostenda e l’Adriatico. E se da Vienna in fondo si assegna all’isola e ai domini italiani in genere un ruolo coloniale  --esportatori di materie prime e consumatori di prodotti finiti .--  

Perlongo capisce che per l’economia siciliana si tratta di un’opportunità da cogliere al volo, altrimenti quello che già gli appare come un sottosviluppo si sarebbe sempre più consolidato.

Presenta dei correttivi da applicare subito, praticamente in tutti i campi.

Per cominciare bisogna recuperare la produzione dello zucchero di canna, abbandonata di fronte alla concorrenza dello zucchero brasiliano: al punto che l’isola era diventata consumatrice di un prodotto importato, mentre gli operai delle numerose fabbriche erano rimasti “impigriti nell’ozio e nella povertà”,. Rimettere in piedi le “bellissime fabbriche dei zuccheri nostrali”, doveva nell’immediato servire a non comprare zucchero americano, pensando poi ad esportare un prodotto che restava di qualità migliore di quello brasiliano. Pensa inoltre di impiantare una fabbrica di panni è una continua emorragia per le casse del regno. Perlongo dedica grande attenzione al commercio del grano, ma è istintivamente nemico delle monoculture; suggerisce all’imperatore Carlo VI di obbligare i “borgesi” a destinare alla coltivazione del lino almeno la ventesima parte dei loro fondi, introducendo al contempo la coltivazione della vite e dell’ulivo.

Per il presidente Perlongo il risanamento dell’economia del Regno passa attraverso la liberazione dal secolare dominio esercitato dai mercanti genovesi, veneziani e stranieri in genere. Propone la creazione di una marina mercantile e la costituzione di una nuova figura costituzionale, il Magistrato del commercio, che dalle sue sedi di Palermo e Messina, possa coordinare tutte le attività economiche dell’isola. Al Magistrato, formato da “due negozianti di buona mente” di cui uno straniero, si sarebbero affiancate due “compagnie di negozio” formate con capitale misto, dall’Imperatore e da “persone nobili e cospicue” del Regno.

La prima compagnia doveva avere sede ad Ostenda, la seconda far capo ai portofranchi di Fiume e Trieste. Fra loro avrebbero diviso la “privativa” di tutto il traffico commerciale. Perlongo non dimentica di sottolineare il ruolo prioritario che la Sicilia poteva svolgere nei rapporti con l’Africa, per secoli ostacolato dalla pirateria e da “superstizione considerazioni” che impedivano di trafficare con i paesi non cattolici: col risultato che la Sicilia comprava i prodotti africani  nei porti di Livorno e Venezia, a prezzo maggiorato. Perlongo è un uomo che precorre i tempi, ha ben chiaro che limitandosi a vendere materie prime o parzialmente lavorate la bilancia commerciale sarebbe rimasta eternamente in rosso. Tanto più che aveva spesso osservato come le stesse materie prime esportate dalla Sicilia venivano lavorate all’estero, e poi ricomprate nell’isola a un prezzo molto più alto. Così avveniva ad esempio con la seta: venduta grezza, tornava sotto forma di drappi lavorati in Francia o anche a Genova, Lucca, Firenze e acquistati a caro prezzo per “render soddisfatta la cupidigia del lusso”. Suggerisce di far venire drappieri e tessitori, dalla Francia o anche solo da Milano. Famiglie di artigiani fiamminghi potevano insegnare alle siciliane i segreti dei merletti di Fiandra, in poco tempo gli artigiani siciliani avrebbero potuto imparare ogni lavorazione e finalmente uscire dalla forzata povertà.

Nel progetto di Perlongo l’avvio delle manifatture siciliane era protetto da dazi che scoraggiavano l’acquisto dei prodotti esteri. Al contempo la produzione siciliana doveva puntare sulla qualità, indirizzandosi a quelle che oggi si definirebbero “nicchie di mercato”. Per lo zucchero, ad esempio, scrive che viene consumato dai nobili e soprattutto dalle monarche: tutta gente danarosa che ben poco avrebbe sofferto per un rincaro dei prezzi, il cui lieve danno sarebbe stato ampiamente compensato dal “bene pubblico del regno”. Lo sviluppo delle manifatture avrebbe, infatti, comportato lavoro per tutti, dando il via ad un benessere generalizzato e coincidente con la ricchezza dello stato.

Nel 1722 il presidente Perlongo viene chiamato a Vienna, ad occupare la carica di Reggente per la Sicilia nel Supremo Consiglio di Spagna. Non tornerà più nell’isola. Da Vienna è costretto a vedere come i nuovi ministri patrimoniali intralciano la polita del governo centrale. Lui influenza le decisioni politiche economiche sovrano verso i territori italiani, ma la Sicilia sembra essergli sfuggita di mano.

La mancanza di soldi, le voci di guerra e quindi il bisogno di tenere efficienti le fortificazioni, portano il governo a cercare di rastrellare denaro in tutti i modi: si vendono le cariche, i titoli, i diritti. Non è più tempo di progetti per il futuro, la Sicilia può tornare alla sua occupazione preferita: rimpiangere la grandezza passata.

 

(1) Nel luogo natìo, Naso, in provincia di Messina, è stata intitolata in sua memoria, la piazzetta  antistante la sua casa di nascita.